ROMA – La scorsa primavera nello Stato maggiore della Difesa di via XX Settembre si è tenuta una riunione segretissima che ha visto allo stesso tavolo i vertici delle forze armate e gli amministratori delle aziende nazionali del settore. Argomento: i chiesti dalla Nato all’Italia, ossia quello che il nostro Paese deve concretamente mettere in campo entro il 2029 per rendere l’Alleanza in grado di affrontare un grande conflitto in Europa. La mappa della situazione discussa in quella sede coincide sostanzialmente con le carenze nella nostra preparazione a un ipotetico scontro con la Russia, evidenziate due giorni fa dal ministro Guido Crosetto.
Tutto lo schieramento italiano infatti appare in ritardo. Il quadro dell’Aeronautica è il meno preoccupante, seguito da quello della Marina mentre per l’Esercito è stato evidenziato un allarme rosso: le nostre brigate negli ultimi trent’anni sono state forgiate per le cosiddette missioni di pace, con contingenti limitati di soldati senza armamenti pesanti, e la conversione alla prospettiva di una guerra ad alta intensità come quella ucraina richiede una rivoluzione, che il generale Carmine Masiello cerca di realizzare a tappe forzate. In terra come in cielo e in mare però c’è un problema comune, gravissimo: i piani di rafforzamento sono stati varati e ci sono pure i finanziamenti ma le industrie non riescono a fornire i mezzi.
È il caso dei carri armati. Nel 2022 ne erano rimasti meno di 50; è partito subito il piano per modernizzare almeno 120 dei vecchi Ariete ma la messa a punto è stata più lunga del previsto. Leonardo grazie all’accordo con Rheinmetall produrrà i nuovi Panther e i cingolati Lynx: siamo ancora ai prototipi mentre la Nato ci chiede due brigate corazzate operative entro quattro anni. Il buco maggiore riguarda i missili, monopolio del consorzio europeo Mbda. Quando Putin ha marciato su Kiev c’erano solo cinque batterie di Samp-T per proteggere i cieli di tutta Italia. Il governo Draghi e quello Meloni hanno immediatamente firmato gli ordini: il primo apparato sarà consegnato nel 2026. Ora è stato commissionato uno scudo su più livelli, che sarà ulteriormente incrementato con i fondi europei: la fascia alta ai Samp-T, l’intermedia ai Camm-Er e in basso i nuovissimi missili portatili Fulgur. Lorenzo Mariani, ceo italiano di Mbda, sta facendo di tutto per aumentare numero e dimensioni degli impianti produttivi ma la “cupola” anti-aerea e anti-missili necessaria a fronteggiare gli sciami russi non sarà completata prima del 2031. E anche le squadriglie di caccia e la flotta invocano missili terra-aria e altri ordigni a lungo raggio per disporre di «un’autonomia strategica»: la possibilità di colpire a mille chilometri di distanza e dissuadere gli avversari dall’attaccarci.
Non è che la colpa sia solo delle imprese: le industrie lamentano la discontinuità dei programmi militari e soprattutto la burocrazia che blocca l’apertura delle fabbriche. La vicenda clamorosa è quella dell’impianto sardo di Rwm (gruppo Rheinmetall), destinato a confezionare anche le richiestissime munizioni d’artiglieria, fermo da tre anni per i ricorsi amministrativi.
Queste considerazioni riguardano soprattutto le armi del passato, perché quelle del presente come i droni e i sistemi anti-drone hanno un’altra prerogativa: necessitano di un aggiornamento tecnologico continuo, incompatibile con la lentezza degli appalti ministeriali. I piccoli quadricotteri che dominano i campi di battaglia del Donbass diventano obsoleti dopo sei mesi: senza cambiare le procedure si rischia di comprare strumenti che quando entrano in servizio sono già superati. Infine c’è il problema degli organici: servono molti più militari e bisogna inventare una riserva da mobilitare negli scenari peggiori. La decisione spetta al Parlamento, poco sensibile ai venti di guerra che soffiano in Europa.
