Il 20 gennaio 2025, il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump, al momento del proprio insediamento in Campidoglio, ha cominciato il suo discorso con queste parole: «L’età dell’oro dell’America inizia proprio adesso. Da oggi in poi, il nostro Paese rifiorirà e sarà rispettato di nuovo in tutto il mondo, saremo l’invidia di ogni nazione e non permetteremo più che qualcuno si approfitti di noi». Questo parallelo con l’età dell’oro, usato per descrivere la (presunta) nuova fase di prosperità che gli Stati Uniti attraverseranno grazie a lui, deve stare molto a cuore a Trump. Infatti lo ha rinnovato anche in occasione del suo torrenziale discorso alle Nazioni Unite.
E, come se non bastasse, più recentemente, nel loro primo incontro ufficiale a Tokyo, lui e Sanae Takaichi – la prima donna premier del Giappone – hanno promesso di inaugurare una «nuova età dell’oro» per l’alleanza tra Washington e Tokyo, firmando accordi su commercio e minerali strategici. Insomma, «secol si rinnova», come recitava l’antica profezia della Sibilla che inaugurava la quarta Ecloga di Virgilio: l’ non è mai stata così di moda.
Non so se tutti gli americani, compresi gli appartenenti al movimento Maga, condividano davvero questa ribadita certezza di Trump. Mi auguro che un po’ di realismo aleggi ancora nella testa di qualcuno. È certo comunque che, come del resto a proposito di questioni molto più serie, anche in queste occasioni Trump non sembra avere piena contezza di ciò che va dicendo. Basta un minimo di conoscenza del mondo classico per accorgersi che l’età dell’oro si caratterizza proprio per tutto l’opposto di ciò che il presidente americano sembra auspicare. Anzi, della sua stessa visione del mondo.
In primo luogo, infatti, questa mitica età non conosceva i commerci. Al massimo gli uomini arrivavano a praticare qualche baratto, e in ogni caso era un punto d’onore ricordare che, in quel tempo, la nave Argo, la prima che avesse mai solcato le onde, non era stata neppure concepita. Niente mercatura, insomma. Nell’età dell’oro Trump non avrebbe trovato nessuno a cui far pagare i dazi. Ma non solo non commerciavano, quei nostri mitici antenati neppure lavoravano – per il semplice fatto che non ne avevano bisogno. La terra produceva da sola le messi, il miele stillava dagli alberi, il latte scorreva a ruscelli. Ma allora, quando Trump insiste per rilocalizzare negli Usa le imprese che sono fuggite all’estero, proprio per dare lavoro ai suoi concittadini? C’è qualcosa che non quadra: o si lavora, anche duramente, e allora vuol dire che l’età dell’oro è finita; oppure si vive nell’età dell’oro, però non si lavora. Soprattutto però, come Ovidio ci insegna, in quella mitica età non si producevano armi (per il semplice motivo che non si conosceva la guerra). Non si lavorava il ferro, non si costruivano né lance né spade…
E poi, questa è davvero grossa, gli uomini dell’età dell’oro non onoravano gli dèi. Proprio così, non li conoscevano, non erigevano né templi né altari. Non credo che i molti cristiani fondamentalisti che sostengono Trump a spada tratta sarebbero contenti di vivere in un’era (anche se aurea) così secolarizzata.
Il fatto è che l’età dell’oro è sempre stata solo un bel sogno, un piacevole esercizio letterario, una fantasia di cui deliziarsi sdraiati a tavola mentre schiavi servizievoli riempivano le coppe di vino: ma niente di più. Non ha mai potuto essere un vero progetto per l’umanità, solo un luogo retorico. Ci aspettiamo che prima o poi lo sarà anche per gli americani del presidente Trump.
