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Zelensky spiazzato dal dietrofront di Trump sui Tomahawk chiama gli alleati: “Evitiamo l’escalation, sono pronto a negoziare”

Niente Tomahawk. «Sui missili a lungo raggio abbiamo deciso che non ne parliamo. Nessuno vuole… l’America non vuole un’escalation, e sono fuori questione». Appena uscito dalla Casa Bianca, Volodymyr Zelensky prende il cellulare e chiama gli alleati europei — Italia compresa — poi si ferma davanti alle telecamere. Ma quindi, presidente, dopo aver parlato con Trump lei ora è più o meno ottimista sulla possibilità di riceverli? «Sono realista. La Russia ha paura dei tomahawk, è un’arma molto potente. Ma ha ragione Trump: dobbiamo fermarci e parlare. Fermare la guerra sulla linea del fronte, poi discuteremo di tutto il resto».

Lo stesso aggettivo, realista, lo usò per archiviare un’altra delle grandi battaglie politiche, quella sull’ammissione nella Nato. Stesse motivazioni, medesimo esito: si rischia l’escalation, niente da fare. Non è andato come si aspettava, questo quinto incontro con il Trump bis dopo la “catastrofe” diplomatica di febbraio, il colloquio riparatorio in San Pietro il 26 aprile, l’incontro collettivo di agosto a Washington con i volonterosi e il successo insperato a margine del Consiglio di sicurezza dell’Onu, quando ha persino sperato di aver ritrovato il suo più potente alleato.

Stavolta Putin gli ha tolto la palla prima di calciarla, chiamando la Casa Bianca giovedì mentre Zelensky era ancora in volo. Gli ha bruciato il bilaterale: ha riprogrammato l’agenda, riscritto i temi. Il presidente ucraino ci prova comunque: se mi dai i tuoi Tomahawk io ti do i miei droni, tenta il baratto nel suk della geopolitica intorno alla tavola imbandita per il pranzo di lavoro. I due presidenti sono faccia a faccia accanto alle delegazioni, dietro di loro schiere di giornalisti e telecamere per una conferenza stampa informale pre vertice che non finisce più, in pieno stile del Trump bis.

Ma il presidente ucraino ha imparato le regole, con un pizzico di ossequio formale mantiene calmo il presidente americano, che non lo ha mia amato e non lo ama. Ma «iniziamo a capirci». Trump «è ben consapevole della situazione al fronte», e «l’Ucraina ha migliaia di droni ma nessun Tomahawk. Gli Usa hanno Tomahawk e altri missili, ma potrebbero avere anche droni ucraini: possiamo collaborare. L’Ucraina può rafforzare la produzione americana, e utilizzerà i Tomahawk solo contro obiettivi militari. Noi vogliamo la pace, ma Putin no».

Ma il bilaterale di Budapest tra le superpotenze ha sviato gli obiettivi tattici. Era volato in America «sperando di rafforzare il supporto Usa facendo di Trump un vero alleato strategico e non un mediatore», dice il politogo Ruslan Bortnik. Ma è quest’ultimo il ruolo che Trump ha disegnato per sé: il «leader mediatore» che negozierà la pace.

Trump gioca il ruolo dell’equidistante, non dell’alleato. Kiev voleva evitare concessioni e puntava alla cooperazione economica, al coinvolgimento di imprese Usa nel settore energetico ucraino e nei porti, a stringere grandi accordi sulla cooperazione industriale militare. E ad aumentare le sanzioni. Sogni che restano nel cassetto. Tutto questo, d’altronde, serviva a portare Putin al tavolo delle trattative. L’obiettivo potrebbe averlo raggiunto in ogni caso. Per questo nel bilaterale Zelensky non rinuncia al tema più importante, le garanzie di sicurezza che l’America non gli dà. Le forti garanzie vincolanti americane che ammorbidirebbero le perplessità di Kiev verso una pace dolorosa. «Le garanzie bilaterali da parte degli Stati Uniti sono fondamentali, perché sono molto potenti. Trump ha la possibilità di porre fine alla guerra» come con il «cessate il fuoco in Medio Oriente, può fare lo stesso qui. Questa è una grande opportunità per l’Ucraina».